Racconto


 

Curve morbide

un racconto di L. P.

 

Da mesi comprava cellulari e poi, appena ne uscivano in commercio altri, li rivendeva e acquistava nuovi modelli. Nell'azienda dove lavorava come architetto, era quello che ne possedeva di più. Un giorno capitò quella cosa strana.

 

Successe dopo giorni di intenso traffico telefonico. “Ciao come stai? E ’molto tempo che non ti sento… quando ci vediamo?” L’amica.

 

“Alberto ti hanno visto con la barba lunga, trasandato, che fai? Mi vuoi fare preoccupare?” La sorella grande.

 

“Alberto questo progetto quanto lo devo aspettare ancora? Ti do una settimana poi lo passo a un altro”. Il direttore del suo ufficio.  

 

“Il bonifico ancora non arriva, sei il solito imbecille inaffidabile”. L’ex moglie.

 

E lui quando ci riusciva, rispondeva, tranquillizzava, annuiva, assecondava, prendeva tempo o semplicemente non rispondeva.

 

I messaggi erano tutti negativi e si affastellavano uno sull’altro, in fretta, senza che lui provasse la minima voglia di dare altro che cenni di risposta nel migliore dei casi.

 

Si accorse all’improvviso, in una mattina grigia di una primavera tardiva, mentre le nuvole si accomodavano nel cielo preparando la pioggia, che la solitudine lo stava uccidendo.  Nella fila dei suoi ultimi cellulari ben disposti sul comodino non compariva più neanche un messaggio. Solo qualche suono che annunciava una visita sui social. Percepì in modo netto quel senso di vuoto che chiamava il cielo verso di lui, come uno straccio che sgombrava illusioni.

 

Sentì forte che doveva allontanarsi da quei rettangoli colorati, da cui dipendeva alla pari di un amante intossicato. Si vestì di corsa come se dovesse scappare da una donna troppo impegnativa con cui aveva passato notti prive di sentimenti.  Uscì in quell’alba livida che spezzava ogni tentativo di luce. Uscì e camminò verso il centro della città… camminò a lungo osservando persone che parlavano attraverso i fili che pendevano dalle orecchie, precipitati da un pianeta senza più fisicità. Gli appariva tutto assurdo e i rumori delle tazzine in un bar, dove ingoiò un caffè insapore, sembravano esplosioni che gli spezzavano le orecchie. Nonostante tutto cercava qualcosa che gli evitasse di continuare a provare quella nausea.

 

Si avviò verso il mercato di Porta Portese, era ancora presto e i venditori sistemavano i banchi, emigranti e italiani, mischiati e colorati, una compravendita di continenti e paesi lontani. Gli italiani sempre più vecchi e gli emigranti sempre più numerosi, un turn over di popolazioni in atto, senza sosta. Alberto ne aveva quasi paura.

 

Avrebbe voluto solo provare qualcosa di bello che sollevasse lui e le nuvole oltre quella cortina di rumori accavallati. Ricordò la sensazione di quando incontrava una ragazza di cui era innamorato, molti anni prima. Un impulso irresistibile ad essere vicino, il più possibile vicino, alla sua pelle profumata.

 

Invece in quel mercato di Porta Portese la puzza si univa all’accatastarsi di cose di ogni genere, mobili, vestiti, ricordi, ansia di sopravvivere, gente che vendeva e gente che cercava senza tregua.

 

Anche lui cercava, cercava, ma non sapeva cosa. Guardava quella folla e cercava di amalgamarsi e mimetizzarsi in modo da sentirsi uno di loro e più ci provava più si sentiva estraneo a tutto.

 

Poi la vide con quelle curve morbide, con quel colore caldo che la rendeva familiare, e un sorriso bianco che lo invitava ad avvicinarsi. Era più bella di qualsiasi donna. Si affrettò verso il banco disordinato dove i quadri si mischiavano a orologi a pendolo e mille ninnoli sconsiderati erano accatastati alla rinfusa.

 

Lei sembrava non appartenere a quel caos, anzi lo dominava come una regina.

 

Non poté fare a meno di sfiorarla appena, ma fu sufficiente per comprendere che le sue dita potevano ancora provare qualcosa nel lieve percorrere la sua forma. Un tocco impercettibile  gli restituì un desiderio di vita.

 

Alberto avrebbe pagato qualsiasi prezzo per portarla via. Anche se lei serviva a quel banco per richiamare l’attenzione dei compratori con la sua bellezza. Non fu facile, per Alberto, convincere il vecchio rigattiere a fare a meno di quell’aiuto che riteneva fondamentale.

 

L’anziano continuava a ripetere: “Senza di lei il mio banco non sarà più lo stesso, tutti si fermano per lei, tutti mi chiedono dove l’ho trovata, non ha prezzo”.

 

Ma Alberto riuscì a persuaderlo, ci riuscì con una determinazione che aveva dimenticato. Argomentò in ogni modo, offrì più di quanto poteva offrire il rigattiere per giorni e giorni di lavoro e riuscì a portarla via. La soddisfazione gli gonfiava il torace e gli faceva sollevare le spalle. Camminava spedito. Aveva un tesoro con sé e i suoi debiti e fallimenti non contavano più nulla.

 

Quasi correndo, tornò nel suo piccolo appartamento e sgombrò il tavolo dalle mille inutilità accatastate, facendo spazio per lei.  Si allontanò per osservarla meglio. Era davvero attraente con quella mascherina bianca che sembrava un sorriso per trasmettere emozioni. Di nuovo l’impulso ad accarezzarla prese il sopravvento. Le sue dita percorsero le curve di radica trovando il caldo della storia in quella radio del 1940 che aveva trasmesso tanti proclami, la fine della guerra e l’inizio della pace. Girò una manopola e una musica di altri tempi lo trascinò nella memoria, ripescando nei suoni il sapore di un mondo in cui tutti ascoltavano senza fretta.